Blocchi del respiro e tensioni muscolari
Wilhem Reich (1973) giunse a verificare che la respirazione spontanea e profonda produce l’atteggiamento necessario alla salute. Reich iniziò dalla constatazione che tante persone oppongono resistenze alla risoluzione dei loro conflitti interni, e studiandone i loro schemi corporei, i loro atteggiamenti, il loro modo di respirare, dedusse che esisteva in queste persone un blocco sviluppatosi durante l'infanzia sia di natura psichica che corporea: il conflitto emotivo infatti si evidenziava anche sul piano fisico con la manifestazione di tensioni muscolari.

In particolare Reich considerò che la ritenzione del respiro era una modalità difensiva attuata dal bambino e riprodotta dall'adulto per tenere a freno sensazioni ed emozioni non accettate dall'ambiente. 
Ad esempio ogni volta che un bambino ha paura modifica la sua respirazione con una caratteristica contrazione della muscolatura respiratoria delle spalle e della parte superiore del torace. 
Invece l'inibizione della libera espressione della voce e delle proprie emozioni e opinioni provoca contrazioni dei muscoli del collo e della gola, mentre la repressione delle funzioni fisiche più semplici e vitali come il correre, il muoversi, il giocare nella natura determina un indebolimento della respirazione addominale. 
La persona, quindi, può trovarsi a vivere in un corpo stretto da anelli di tensione.
Quando la respirazione in una zona del corpo è bloccata, vengono anche bloccate le sensazioni che da quella zona arrivano al cervello; il risultato è quello di avere una parte del corpo che non pulsa più, rimane contratta e senza sensazioni: si ha una zona morta.
La repressione della rabbia, ad esempio, blocca più sovente la parte destra del diaframma e dei muscoli laterali del torace e della spalla, con un blocco dei muscoli della masticazione.
In sintesi da quanto ha detto Reich l’organismo per proteggersi dal dolore o per inibire emozioni vissute come pericolose trattiene il respiro e si irrigidisce, immobilizzando una zona del corpo.
Ogni naturale funzione vitale ed emozionale che viene inibita porta ad un blocco muscolare e respiratorio.
Con il tempo le tensioni si cronicizzano e la persona non si accorge più di metterle in atto, ovvero
diventano non consapevoli, automatiche.
Queste tensioni sono a loro volta causa di dolore sia perché riducono la libertà di movimento[1] e di essere se stessi sia perché possono diventare sintomo fisico.

Altri studi provengono dal neurofisiologo Laborit, il quale ha dimostrato una correlazione tra l’inibizione prolungata all’azione e le tensioni muscolari e le alterazioni che coinvolgono l’aspetto neuroendocrinoimmunologico. Queste ultime a lungo andare producono danni organici, quali ulcera, disturbi cardiocircolatori, ecc..
La persona di fronte ad un ostacolo esterno, verso il quale non può reagire, scarica all’interno di sé queste reazioni impedite, attraverso secrezioni ormonali come la noradrenalina e i corticosteroidi.
E’ il caso del bambino che non può reagire né con l’attacco fisico né con quello verbale di fronte l’autorità genitoriale poiché non possiede lo stesso potere fisico e decisionale e poiché teme una punizione maggiore. Non avendo via d’uscita il bambino crea tensione muscolare per non sentire e adattarsi all'ambiente. Questa persona una volta cresciuta, trovandosi di fronte all’autorità, può sperimentare lo stesso vissuto per l’emergere della memoria corporea.
L’inibizione dell’azione in relazione allo stress produce forte coinvolgimento emotivo, corporeo (nodo alla gola per il pianto che vuole uscire, morso allo stomaco per il sentimento di rabbia e il cuore che batte forte) e neurofisiologico (accavallamento del simpatico e parasimpatico con scarica ormonale, che genera squilibrio metabolico).
A livello fisiologico, quindi, il blocco sta nell’attivarsi contemporaneamente sia del sistema simpatico (deputato alla lotta e alla fuga, e quindi all’aumento della pressione arteriosa, del flusso ematico ai muscoli, del metabolismo, dell’attività mentale, ecc..) e sia di quello parasimpatico (attivo in condizioni di riposo, con funzioni antagoniste rispetto al simpatico: riduce la frequenza cardiaca, aumenta la secrezione e l’attività contrattile dell’apparato digerente, ecc..). Entrambi i due sistemi attivi determinano, così, l’inibizione dell’azione.
Questi studi ci dicono che dietro sensazioni di disagio emotivo e fisico, che emergono a volte senza controllo e coinvolgono fortemente il corpo, vi sono spesso un’emozione bloccata e un bisogno non soddisfatto, che risalgono al passato e che non hanno potuto trovare la via dell’espressione.
Inoltre gli studi del neurofisiologo Gellhorn hanno dimostrato che l’intensificare il sistema parasimpatico porta ad un rimbalzo nel simpatico e viceversa.
Ovvero toccare il dolore, emozione collegata al parasimpatico, porta all’attivarsi dell’energia della rabbia, emozione connessa al simpatico, ed anche vivere la rabbia permette di accedere al dolore congelato. In questo modo si rivolve il nodo fisiologico ed emotivo dovuto all’accavallarsi dei due sistemi, e si può abbandonare il passato per vivere il presente e proiettarsi nel futuro.
A livello clinico questo rassicura sul fatto che si possono vivere le emozioni senza temerle, mentre tentare di non sentirle è un modo per rimanerne legati.
Per recuperare il vissuto appartenente al passato, la terapia biosistemica ritiene importante il riconnettere il sentire con il pensare, che a livello fisiologico equivale a far comunicare la via che dal talamo va alla corteccia  e quella che dal talamo va al sistema limbico. Nella prima via la persona sa dare un significato alle sensazioni che vive, nella seconda le sensazioni sono percepite fuori dalla consapevolezza, quindi non comprese e non gestite. L’intervento è rivolto affinché la persona dia parole a ciò che il corpo esprime, prenda con esso confidenza e si permetta così di sentire e di essere quello che è.
Lowen, fondatore della terapia bioenergetica, ha notato come il rilassare le contrazioni muscolari permette di portare alla coscienza le emozioni represse e a far sì che la persona torni a godere del corpo e della vita.
Questi studi evidenziano la stretta correlazione tra mente e corpo.
Il corpo è portavoce di un segnale prezioso, ovvero di un conflitto interno, e comunica la volontà di uscire dalle illusioni di felicità  e affrontare la verità e la consapevolezza di sé (Raffaella Sasso, 2002).
Quando il conflitto, invece, non viene riconosciuto, si cronicizza nel corpo, che, non più mobile e ossigenato, tende ad ammalarsi.




[1] Emozione vuol dire “muoversi verso”, “mettere in moto”; di conseguenza trattenere l’emozione è limitare l’andare verso il mondo e anche la mobilità. Nell’impulsività invece l’emozione esplode e non si incanala in un comportamento organizzato e costruttivo.